“Banana” – urlava come un forsennato verso la Netta, sua moglie, non appena questa si allontanava dal tugurio della loro cucina, che era anche dormitorio per loro, per i cinque figli e per le galline.
E se la Netta non rispondeva, proseguiva con rabbia con un’altra parolaccia, che faceva rima con la prima, aggiungendone spesso una terza: “Tabacona”. Naturalmente Netta rispondeva da par suo con altre colorite ingiurie. Le scenate, più che quotidiane, erano diventate il divertimento di tutta contrà Canova, attenta a rilevare le variazioni di tono e di lunghezza delle baruffe per trarne, scherzando, previsioni sull’andamento del tempo dei giorni successivi.
Momi Caretiero, tornando in bicicletta dalla sua “priara” di Rasela, diceva sempre a voce alta: “Doman piove” o “doman belo”, ecc. A pensare che lui in casa non era meno violento con la moglie Gilda, cui piaceva la “tasseta”; usava meno parole, ma di più quello che gli capitava fra le mani. La Gilda però taceva e giustificava il suo occhio pesto o il bernoccolo in testa: “Ah! Spacando ‘na stela, me xe saltà na sgresenda in te l’ocio”.
Sotto un alto pertugio inferriato che fungeva da unica finestra di quella cucina, Checo sedeva per l’intero giorno al deschetto di ciabattino. A forza di puntare sul cuoio o sul legno delle “sgalmare” le puntine o “mentine” per poi ribatterle con lo speciale martello orecchiuto, aveva il polpastrello del pollice della mano sinistra schiacciato e deformato. Ci faceva impressione guardarlo anche perché era alto poco più di un nano, era sciancato e si muoveva in modo buffo, dimenandosi. In quello stimato mestiere contrà Canova tutta era sua cliente. Era pagato con pochi soldi e spesso in natura. In natura e con un piatto di minestra era ricompensato d’inverno quando, per sfuggire al freddo della sua cucina, andava in missione nelle stalle dei vicini e li rimaneva fino a quando aveva aggiustato scarpe e “sgalmare” di tutta la famiglia, compresi i finimenti e le bardature degli animali da tiro.
Non ho mai capito perché ce l’avesse con Netta e la chiamasse “Banana”. Si mormorava che per Checo quella parola significasse persona sempliciotta e poco furba. Si diceva in verità che Netta, uscita da un’agiata famiglia contadina di contrà Cantarana, si fosse fatta “fregare” con l’eredità da un fratello.
Difatti a Checo non aveva portato nulla in dote. Non si capiva invece perché la offendesse con l’altro epiteto. La Netta, impegnata per tutta la vita a fare e a sfamare i figli, non aveva di certo tentazioni extra coniugali, tanto più che, alta e allampanata com’era, non aveva un’appariscenza, che invogliasse qualcuno a far di Checo un “Cornelio”. Tabaccona invece lo era e molto; quando passava, diffondeva un poco gradito odore di tabacco. Eppur Checo era un uomo buono, mite e anche socievole. Noi ragazzi lo stimavamo e un poco gli volevamo anche bene perché sapeva trattarci con affabilità quando andavamo a casa sua per riparare scarpe e “sgalmare”.
Si passava per il portico, che era un labirinto di cianfrusaglie e di cose inutili. Si entrava nella cucina-laboratorio, che a destra aveva il deschetto e a sinistra al buio una specie di soppalco, dove nelle notti invernali si appollaiavano gallo e galline. Diceva Checo che le galline avevano la stessa funzione delle vacche in stalla: riscaldavano l’ambiente. Noi si restava a bocca aperta per l’abilità con cui egli, parlandoci, adoperava spago, lesina, punteruoli, martello, spazzole spelate; altra meraviglia quando “impegolava” lo spago per cucire suole o riparare tomaie o mettere “raboti alle sgalmare” e ancora quando con la lesina solcava con un solo tratto la dura suola per alloggiarvi lo spago di cucitura alla tomaia; spago, suola e tomaia, che, infilate nella forma di ferro a tre braccia, ribatteva poi con la “martellina” con abili gesti, traendone un suono metallico, che ci sembrava melodioso.
Era celebrata la sua potente voce da basso profondo e cavernoso; incuteva rispetto anche quando parlava. Insieme con Lucchini, detto “Dolfo Nicolasso”, era il vanto e l’attrazione del Coro parrocchiale di Isola, rigorosamente composto di soli maschi. Le loro potenti voci, messe insieme, dominavano le altre e facevano tremare la chiesa. Nelle solennità cantavano le Messe a tre o quattro voci del maestro compositore don Lorenzo Perosi. Alcuni brani erano talmente noti che durante l’esecuzione li seguivamo sotto voce. Attendevamo con tremore i loro più noti assolo: il possente “Judicare” del Credo oppure, durante i funerali, il tremendo e altrettanto possente “Dies irae”.
La stima verso Checo non veniva meno anche quando infieriva verso la moglie e neppure era intaccata per lo stato penoso di sporcizia del tugurio in cui viveva. La Netta e tutti gli altri erano usi a gettare sotto il tavolo ogni avanzo di cibo, ossa comprese. Ogni tanto erano costretti, per la quantità e l’odore, ad asportarli con la carriola e, già fattisi letame, a spargerli nell’orto.
Nessun danno al pavimento, che era in terra battuta. L’orto invece, ricavato, forse abusivamente, da un sedimento stradale comunale, era rigoglioso, ordinato e ammirato dai passanti. Con l’andar degli anni Checo ha perduto il suo compagno Dolfo e anche lui poco dopo si è lentamente eclissato, smettendo di chiamare “Banana” la moglie Netta, che in ogni caso, se anche in dialetto “netta” vuol dire pulita, durante la vita non ha certo fatto onore al nome che portava.
Entrambi se ne sono andati presto; sono andati, come diceva Checo quando morivano gli amici, “a tendare le galine de Zufelato”, che razzolavano nella campagna a ridosso della cinta del Cimitero.
(Pubblicato su “Il Giornale di Vicenza” il 14.11.2002)