Lo chiamavano “El Strologo” e regnava su contrà Canova e quelle vicine.
Era Bepi Caenasso.
Caenasso era il soprannome con il quale era distinto da altri che avevano il suo stesso cognome: i Tomaso, i Tomaseto, i Tomasone, i Baldon, i Marinaro, i Manaco.
A quei tempi in paese tutti i ceppi familiari, ad eccezione di quelli delle famiglie più “cavate”, avevano un soprannome. Per celia nelle osterie circolava una curiosa filastrocca fatta di cognomi alternativi: i Leone, i Mangia, i Siola, i Puina, i Panseta, i Cician, i Sagra, i Caga, i Fasoi, i Pansa, i Gobi, i Boaroti. i Molonaro, i Pase, i Pinto. Il più bravo era chi li ricordava tutti o ne aggiungeva altri. Gianni Fioretto, poeta in vernacolo isolano (misconosciuto in Paese a conferma della antica regola del “largo al foresto”), ha scritto che i nomi “pi strambi” erano invece quelli destinati ai singoli e alle persone o più pittoresche o “le pì scalcagnà” del paese: Cin-cin dela Roma, Porco Rojo, Beni Pico, Nane Cula, Checo Ruda, Nane Sìgola, Demo Mangia, Piero Culatta, la Cencia de Cencio Spada. Era gente dal dialetto più rozzo, che abitava per lo più di là dal torrente.
Nelle sue Storie della Pellagra Pino Sbalchiero ha ricordato, punzecchiando con fine ironia, che quelli di là dalla Giara (“i sovversivi”) dicevano: verda, manda, ronchedare, dandega, donta, medena, ecc. Invece “i piassaroti”, più evoluti e raffinati, addolcivano la pronuncia con verza, manza. ronchesare, zanzega, zonta, mezena. Solo una parola li rendeva uguali: quella che iniziava con la lettera m… (pardon!).
“El strologo” era invece un attributo assegnato dalla gente al vecchio Bepi Caenasso per le sue personali e riconosciute virtù di saggezza, sapienza ed esperienza, accumulate in tanti anni di vita e d’osservazione durante il lavoro nei campi. Non solo, egli aveva anche un suo vangelo ne ” Il vero ed autentico ALMANACCO meteorognostico vicentino”, creato da certo Giovanni Spello da Poiana Maggiore e edito (nel 2004 è al 166° anno) dalla stamperia “El Lunario” di Lonigo. Esce puntualmente in autunno e allora era venduto nelle fiere e nei mercati da pittoreschi e sguaiati strilloni, vestiti con giacca e brache da cavallerizzo e con il cappello da pioggia a punta e a larghe falde. Per quei tempi mancanti di ogni comunicazione era l’unica fonte di notizie astrologiche, meteo e di cultura spicciola: le eclissi, le fasi e i cicli lunari, gli orari quindicinali del sorgere e del calare del sole, la rosa dei venti, le feste mobili, i giorni e i paesi dei mercati e delle fiere del vicentino e delle provincie vicine, le feste mobili, le norme e i periodi del digiuno ecclesiastico Ma importanti per lui erano le note apposte settimana per settimana accanto al Calendario dei Santi: le previsioni sulla pioggia, siccità, temperatura, temporali, grandinate o nevicate, venti, ecc.
Gli scettici (e non erano pochi) mal nascondevano la loro diffidenza: era facile e puntuale – dicevano – prevedere calura e temporali durante la canicola oppure nevicate e venti di bora o di tramontana nel mese di gennaio. Ma il nostro “Strologo” nelle previsioni aggiungeva il suo sapere e un suo rituale. Inforcava i consunti occhialini ovali a stanghetta (sembravano affumicati tanto erano strisciati e opachi), dava una letta al suo Almanacco, diligentemente appeso alla spalla interna dell’uscio e poi usciva a sentire l’umidità e la direzione dell’aria e a scrutare le condizioni del cielo. Quindi, dallo scalino più alto, abbracciava con lo sguardo l’orizzonte, puntando a nord sul lontano monte Summano, dal quale proveniva sempre il malaugurato vento di tramontana, e poi a ponente, oltre i Colli di Santa Maria del Cengio e di Monte Pulgo, da dove potevano spuntare i neri nembi del Garda, forieri di violenti temporali e grandinate. Infine, tratte le conclusioni, dava risposta, come l’oracolo di Apollo in Delfi, con uno dei suoi proverbi meteorologici: ”Cielo pecorelo, piova e venteselo”; “Co lampeja a tramontana, xe segno de caldana”; “Co lampeja a ponente, xe securo che no lampeja par niente”; “Dal Furlan né bon vento, né bon cristian”; “Quando el Summan ga el capelo, se piove ancò, doman fa belo”; “Se el monte Suman ga la cintura, la piova xe secura”; “Tramonto de naranza, de bon tempo xe speransa”; “El cielo pecorin, promete on bel matin”.
“Bepi, doman posso tajare el prà?” gli ha chiesto una sera di maggio Gidio Brun, che aveva in Prà Visàn un erbaio di 30 campi. El Strologo, compiuto il solito rituale, ha udito d’improvviso il raglio dell’asino, che Andrìn Brun custodiva in un recinto a cento metri di distanza. E’ stata immediata sentenza di pioggia, neppure accompagnata dal proverbio meteo. Gidio, che per l’alba successiva aveva già ingaggiato tutti gli uomini validi della Contrà per lo sfalcio a mano del grande prato, andandosene, si è detto sottovoce per non farsi sentire dallo “Strologo”: “Pioverà, ma mi el fen lo tajo istesso”. Era sicuro che nei due caldi giorni di fine maggio necessari perché l’erba diventasse fieno, più di un innocuo breve acquazzone non sarebbe caduto