‘Ogni anno in una sera del maggio inoltrato, passando per contrà Canova, quando, poco prima dell’imbrunire, la campana maggiore del lontano campanile aveva appena mandato i rintocchi dell’Ave Maria, si udiva, nelle corti, il tin..tin..tin metallico della battitura della falce fienaia.
Gli uomini si preparavano per andare in “opra” all’indomani. Seduti per terra con le gambe divaricate attorno al “piantone”, battevano con diligenza sulla sua piccola incudine la lama della falce con il martello dalla mazza e penna di ferro dolce. Il tintinnio era penetrante.
Di tanto in tanto si fermavamo e, mirando verso il cielo, scrutavano la lama; se aveva il “filo” lo toglievano ritmicamente con la “pria” tolta dal “coaro”, che era appeso alla cinghia delle brache. La lama, sfiorata poi con il polpastrello del pollice, doveva risultare perfettamente tagliente. Era ambita dagli uomini della contrà la chiamata alla fienagione del maggengo del “prà Visan”. Era un prato di oltre 12 ettari posto nella lontana campagna di S.Tomio. Era condotto a monocoltura dai Brun per le esigenze della propria stalla.
Con la loro “opra” gli uomini si sarebbero sdebitati per l’aratura o avrebbero ottenuto la trebbiatura o altra prestazione meccanica per il “mezzo campetto”, coltivato in proprietà o condotto in affitto. All’alba si adunavano nella grande aia. Cino Brun aveva già preparato cavalla e carretta senza sponde. Ponevano in mezzo gli attrezzi di lavoro (falci, forche, rastrelli) e si mettevano ai lati con le gambe penzoloni.
Gidio Brun custodiva fra le cosce il grande fiasco di clinto, che sarebbe diventato poco dopo un ottimo carburante per i falciatori. Lo sfalcio a mano era la più grande fatica di quei tempi; gambe, anche, torso, braccia entravano in uno sforzo ripetitivo e spossante. C’entrava anche la gola quando accompagnavano il movimento con quel suono gutturale e secco che dava ritmo e convinzione allo sforzo.
Non per niente Cino Brun anche lì aveva trovato il modo di scansare la fatica: dopo aver portato gli uomini, tornava a casa con cavalla e carretta e, gironzolando fino alle otto, aspettava che le donne preparassero la colazione da portare in campagna.
Intanto gli uomini, allineati a rastrello, procedevano di pari passo a falciare il prato, andando per un’”anta” e tornando per l’altra.
Ogni tanto uno si fermava (e tutti gli altri lo seguivano) per dare un colpo di “pria” alla lama; era quasi sempre un pretesto per prendere fiato. In testa al prato si fermavano per aspettare, seduti, Nane della Lussia, che maestro e sapiente in tutto, si era già abbondantemente riposato con la scusa di controllare o la qualità del fieno o l’ampiezza delle “ante” o per togliere i ciuffi d’erba non tagliati dagli altri.
Tornati alla partenza, trovavano Gidio pronto a servirli con un bicchiere di clinto, che – diceva – corroborava corpo e spirito e invogliava a riprendere il giro. Così su e giù con lena fino a “sole alto”. Dopo avrebbe fatto troppo caldo. Quindi si distendevano all’ombra delle due vecchie “pioppe” in attesa che arrivassero Cino e le donne con la colazione tenuta al caldo nelle ceste e fra i tovaglioli. Erano in quaranta? Quaranta fette di salame o quaranta di formaggio o quaranta di “scopeton”. Nessuno doveva fare il furbo. La polenta invece era abbondante e anche il vino.
Ma Gidio questa volta lo aveva annacquato perché così – secondo lui – non avrebbe provocato altri sudori ai corpi già sudati. In realtà si era di maggio inoltrato e le botti erano quasi vuote. Portare a casa il fieno per incassarlo nel fienile era un lavoro corale, cui partecipavano con il rastrello anche le donne e i ragazzi. I tre carri vuoti, agganciati a convoglio, arrivavano trainati nei primi anni dai buoi, successivamente da un “Landini testa calda” e anni dopo da un avveniristico trattore Ford con avviamento a manovella. (Cino alla prima messa in moto si è beccato per il contraccolpo la frattura di un braccio; così è stato a riposo per due mesi).
Nane della Lussia, che tutto sapeva e a tutti insegnava, impostava il carico. Faceva porre in bilico una “forcà” ai quattro cantoni del carro; le legava in mezzo con altre “forcà” e, scendendo per passare all’altro carro, ordinava all’allievo Gidio di andar su senza restringere al centro. Da ultimo sulla montagna di fieno issavano le donne e i bambini a mezzo di una forca conficcata, a mo’ di trampolino, a metà di un lato del carro. I tre carri, con il fieno ancorato saldamente con il “persenaro” erano enormi. Il convoglio si avviava lento e barcollante lungo capezzagne strette e infossate, seguito ai lati da uomini che con la forca nelle curve ne sostenevano i lati o raccoglievano il fieno caduto nel passaggio fra gli stretti filari di gelsi. Nane della Lussia seguiva da lontano il carico, compiacendosi del buon lavoro fatto.
Ma non aveva tenuto conto – e l’inconveniente si ripeteva ogni anno – che i carri, per entrare nell’aia e accedere al fienile, dovevano passare per un portone ad arco che aveva le sue misure. Erano, come al solito, troppo larghi. Consulti, prove, spinte, …improperi; ma i carri non passavano.
Nane, esperto in tutto, pensava in disparte ad un’onorevole riparazione del proprio errore, finché, come ogni anno, lanciava a voce alta la sua lapalissiana scoperta: “Tusi, bisogna scaricare i carri”.
L’allievo Gidio Brun si allontanava avvilito e ripeteva sommessamente (come ogni anno): “Ghe lo diso sempre che gh’in sa de pì el Papa e un contadin, che el Papa da solo!” Lui era il contadino e Nane il Papa.
(Pubblicato su “il Giornale di Vicenza” il 15.1. 2003)