Per mangiare gli asparagi dell’orto del nonno ci volevano uova e olio.
Ci pensava la nonna Marieta, che già di mattino, liberando dal pollaio le poche galline, sapeva di quante uova poteva disporre nella giornata.
Si chinava, allargava la mano e cantilenava: “co..coo.co!” e la gallina si acquattava.
La nonna, svelta, la prendeva la metteva sotto l’ascella e con il dito tastava quanto l’uovo fosse lontano dal …coccodè: ” questa sì, …questa fra un’ora…questa nel pomeriggio…questa oggi niente”.
Alla più spavalda prometteva: “A ti, se no te fè ovi, domenega te meto in pegnata”. Di cinque uova, tre erano per gli asparagi: mezzo uovo sodo a testa per i grandi, un quarto d’uovo per noi ragazzi.
Era poi nostro compito andare a barattare le altre due uova con un po’ d’olio dal “vecio” Ignazio Socche, che aveva la privativa in Rasela. E Rasela ci pareva tanto lontana (era invece a 300 metri) .
Si doveva passare lungo il muro della grande stalla e poi sotto i tre immensi ippocastani (“maronari salbeghi” e la fila delle altissime “pioppe” della Villa Guardini; avevi paura e sussultavi perché sotto il portello pedonale della villa era sempre in agguato un cane rabbioso, che ringhiava improvvisamente ad ogni passante.
Si camminava cauti con l’ampollina dell’olio avvolta in uno straccio e le due uova nella sportina, attenti anche, in autunno, a raccogliere le “sbiserande”, che erano preziosi oggetti di scambio nei nostri giochi e garantiti portafortuna per i grandi, che li conservavano, e spesso li tastavano, nel profondo delle tasche delle brache.
Sarebbero stati guai seri rompere le uova o l’ampollina con l’olio. Non per niente a quei tempi, per conclamare un accidente o una disgrazia, si usava esclamare: “addio bossa de l’ojo!”
Nelle altre stagioni le due o tre uova erano destinate al baratto con una “lagrima” d’olio e di uno “scopetòn” (aringa), che Ignazio Socche teneva sotto sale disposti a raggiera in una botte esposta fuori della porta della privativa.
La privativa era emporio d’ogni cosa. Entravi facendo involontariamente scampanellare le colorite frange metalliche para mosche e ti assaliva subito un acre odore di tabacco, di conserve, di salse, di “rumatico”, di affumicato, di salamoia, di formaggio guasto con i “bai”. A destra, dietro un nero vecchio banco, c’era sul muro la scansia dei tabacchi; ai piedi la madia con le farine, le semole e i “soentri”; poi il cassone con il sale grosso e sul banco l’alta bilancia del sale con i piatti di vetro fatti a scodella; a sinistra invece l’altro pezzo di banco consunto e sul muro gli scaffali con barattoli, guantiere e vasi di ogni genere.
Dal retrobottega usciva a malavoglia il vecchio Ignazio, asciugandosi le mani sull’unta traversa grigia; mani che avevano appena manipolato le budella in salamoia, che vendeva “a braccio” in ogni stagione, per salami, soppresse e luganeghe Lo “scopetòn” portato a casa, era abbrustolito sulla “gradela” assieme alla polenta.
La nonna poi lo tagliava a pezzi e lo condiva con il poco olio barattato. Era il companatico di tutta la famiglia. La polenta, regina della tavola, era, fresca o abbrustolita, sempre abbondante; il pane invece era cosa rara, tanto che te ne davano talvolta, come fosse frutta, un “corneto de ciopa” dopo il pasto.
Il nonno Bepi aveva un diritto di prelazione: la testa dello “scopetòn” era sua. Si mangiava prima il suo pezzo e poi prendeva la testa dell’aringa e la gettava fra le braci ardenti fino a che diventava tizzone fra i tizzoni. La recuperava con la “mojeca” e la condiva con le poche gocce d’olio che colavano dall’ampollina. Se la gustava con l’ultima fetta di polenta. Si accucciava poi, beato, a digerire l’insolito pasto sullo “scagno” posto sotto la nappa all’interno del focolare, divertendosi col “soffiaoro” a ravvivare le ultime faville del ceppo, che andava piano piano spegnendosi.
Doveva ancora riscaldare l’acqua della cuccuma di terracotta, posta accanto al fuoco, perché era convinto (e lo predicava!) che ” un bicchiere d’acqua calda al giorno, toglieva il medico d’attorno”. Non aveva a disposizione neppure una mela.
(Racconto pubblicato su “Il Giornale di Vicenza” il 6.12.2002)