Partivano alla primavera di ogni anno con il fagotto di poche cose appeso al manico della grande scure portata a spalla e vestiti con braghe, gilè e giacca di fustagno scuro.
Calzavano il cappello alla tirolese e robusti scarponi chiodati. Si avviavano a piedi su per la Valsugana, rifocillandosi di tanto in tanto e dormendo nei fienili di famiglie caritatevoli. Nel fagotto anche i ferri del mestiere: pendole e pendolino in ferro (cunei).
La pesante scure, portata a spalla, era ad una lama e nel verso aveva una mazzetta, che serviva da massa battente. A Trento montavano sul treno (gratis per grazia di Cecco Beppe), che in un balzo li portava in Austria nei boscosi paesetti della Stiria o della Carinzia.
Tiburzio (vds. Nota *) e Dolfo erano di mestiere spaccalegna; non erano taglialegna, né boscaioli. Giovani e forti, trovavano ospitalità e abbondante lavoro nelle famiglie austriache, le cui “stube” erano insaziabili divoratrici di legna da ardere. E lavoravano sodo fino all’autunno, quando ripetevano il viaggio verso casa, coccolandosi nelle tasche i sudati scellini. A casa, riabbracciati i parenti, buttavano con orgoglio sul tavolo le monete sonanti ad una ad una e quindi, dopo aver pescato con due dita nel taschino del gilè un grosso “Maria Teresa” d’argento, lo saggiavano con i denti e lo gettavano a tintinnare sull’assito fra gli occhi sgranati dei bambini e dei grandi, che lo vedevano come l’inarrivabile oggetto del desiderio. Con quel faticato guadagno entrambe le famiglie superavano le ristrettezze dell’inverno.
Non solo, nel tempo i piccoli risparmi accumulati di anno in anno sono stati essenziali per riscattare nel 1921 casa e campi, quando il patrimonio del padrone conte Biego, impiccatosi poi ad un albero del viale del cimitero di Vicenza e del quale erano affittuari, si era disciolto per fallimento. Durante la stagione del riposo Tiburzio e Dolfo si allenavano a casa o andando a famiglie. Ai curiosi, che sempre li attorniavano, davano prova e lezione di maestria.
Il materiale da lavorare era sempre le “soche”, le più nodose come quelle dei vecchi “morari”, “albere” o 88 “salgari da stropa”, scartate da altri. Ne trascinavano una nel mezzo dell’aia, ne studiavano groppi e venature, puntavano il pendolino e lo conficcavano nel punto fissato. Poi nel pertugio aperto inserivano ad una ad una le pendole sempre più grandi.
Era spettacolare il loro battere con la mazza per conficcarle; si alternavano ritmicamente nei colpi, chiamandosi con un suono gutturale, che significava intesa e sforzo. Le “soche” piano piano si aprivano scricchiolando e diventavano “stele” (ciocchi) fra la soddisfazione dei battitori e i complimenti degli astanti infreddoliti. Tiburzio e Dolfo portavano cognomi (Voderti e Lucchini) che richiamavano chiaramente la loro provenienza dal brefotrofio di Verona. Quell’origine a quei tempi non era un titolo d’onore e il doversi declinare “figlio di N.N.” era imbarazzante. Anche il luogo non era nominabile; lo chiamavano ipocritamente “La Rua”, “Gli Esposti”, ” il Luogo Pio”, quest’ultimo tramutato nella parlata del volgo in “Ovo Pio”, quasi come se quegli incolpevoli “figli del peccato” fossero venuti alla vita dalla schiusa di un uovo. I nostri da giovinetti sono piombati in famiglie adottive e in un ambiente, nei quali dominava quello spirito prevenuto e ostile, per cui, sentendosi isolati, si sono legati a stretta fraterna amicizia, tanto da sentirsi parenti e da lavorare una vita insieme.
Dolfo era rimasto celibe e se n’è andato non in tarda età. Tiburzio invece è resistito per tanti anni. Aveva cinque figlie (le “Tibursie”), tanto ronzate dai giovinotti della contrà e poi tutte maritate. Rimasto solo, si è sempre più isolato, diventando scostante e trasandato. Era ormai una figura caratteristica della Contrà. Si muoveva con fatica e sempre con l’inseparabile bastone. Aveva il “mal de la nona” perché dormiva sempre e in ogni luogo. Quando mangiava la minestra, a metà piatto gli cadeva il cucchiaio sul brodo.
Per raggiungere la “prìa” al di là della strada, si appoggiava al pilastro del portone per prendere fiato e si svegliava di soprassalto per non cadere. Si sedeva sulla “prìa” (il luogo del filò estivo della contrà), appoggiava il mento sul bastone e lì stava ad occhi chiusi per ore. I passanti: “Tiburzio, come xela?”. Rispondeva: “Ah, stago pensando” e ripartiva a dormire. Pare però che una buona dose della sua indolenza fosse simulazione.
A riprova ancor oggi Aldo Brun racconta che nel 1945 si è trovato assieme a Tiburzio a rovistare in contrà Canova sulle calde ceneri di un camion tedesco colpito da un aereo alleato. Una cartuccia smossa dal bastone di Tiburzio è scoppiata e per simpatia l’hanno seguita altre. Il tredicenne Aldo a gambe levate è corso al riparo della “pria”, distante 300 metri. Con lui, pure a gambe levate, è giunto Tiburzio. Aveva perso anche il bastone!
(pubblicato su “Il Giornale di Vicenza” il 3.5.2003)
Nota*: Tiburzio era mio nonno materno. Non ho ancora preso, fra i tanti, il “mal de la nona”.